Storia delle mafie – ’Ndrangheta
“Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si dev’essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va.”
Summit di Montalto, Peppe Zappia, 26 ottobre 1969
“La ’ndrangheta è invisibile come l’altra faccia della luna”
Procuratore dello Stato della Florida a Tampa, Julie Tingwall
[…] 1869. Quell’anno gli elettori della città di Reggio Calabria furono chiamati a votare per due volte. Le elezioni amministrative erano state annullate e si dovettero rifare. L’attiva presenza in campagna elettorale e durante le votazioni di elementi mafiosi aveva alterato il risultato della competizione. In quelle giornate si erano registrati anche fatti di sangue. Tra le altre persone colpite, anche un medico, sfregiato al volto in pieno giorno. Il fatto, per quei tempi era enorme e aveva suscitato scalpore e scandalo nell’opinione pubblica. Il prefetto di Reggio Calabria, che si era recato personalmente dalla vittima per verificare le circostanze dell’accaduto, era convinto, come scrisse in una relazione, che “lo sfregio” fosse stato fatto “per grane elettorali”. I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che giravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero “obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità”. Siamo nel lontanissimo 1869, potremmo essere ai nostri giorni […].
Dalla prima relazione sulla ‘ndrangheta della Commissione parlamentare antimafia
Breve storia della ‘ndrangheta in Calabria
La parola ‘ndrangheta deriva etimologicamente dal greco “andros agathos” (uomo coraggioso e valoroso), e quindi ‘ndrangheta è da intendersi come la consorteria degli uomini per antonomasia, cioè degli uomini valenti, degli uomini d’onore.
Al di là della definizione fondamentale è il valore dell’uomo forte, capace di incutere rispetto, che non tollera a suo modo il vedere soprusi, intenzionato a farsi giustizia da solo e che – e questo è un dato importante – antepone a tutto gli interessi personali e della famiglia, ai quali sono sempre subordinati gli interessi collettivi.
Agli inizi degli anni ’80 del XX secolo il termine ‘ndrangheta fu in parte sostituito con “Santa” per un accordo fra i capi ‘ndrangheta e Raffaele Cutolo della Camorra.
La prima comparsa della parola ‘ndrangheta in documenti ufficiali risale al 1884 nella relazione fatta dal prefetto di Reggio Calabria Tamajo al Ministro degli Interni. Precedentemente, in un rapporto dei carabinieri di Seminara, si riferiva di un gruppo di delinquenti legati tra loro da un rigoroso codice segreto e che commettevano delitti di ogni genere.
Il processo storico di incubazione della ‘ndrangheta può essere fatto risalire alla fallimentare esperienza della Repubblica Partenopea nel 1799 (moti rivoluzionari che seguivano le idee della Rivoluzione francese).
Divisa al suo interno e incapace di procedere ad una vera riforma finalizzata a creare un vasto consenso popolare, la giovane Repubblica venne soffocata nel sangue dalle armate sanfediste (i Sanfedisti si opponevano alle idee politiche e religiose della Rivoluzione francese; a Napoli, guidati da un cardinale, contribuirono alla restaurazione dei Borboni).
Le riforme francesi del 1806, pur abolendo la feudalità, innescarono un processo di impoverimento dei contadini che finirono per ingrossare le fila dei briganti filo-borboni (F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1982).
Il Congresso di Vienna non influì minimamente nella grave crisi economica che riesplose con i moti prerisorgimentali durante i quali, mentre i latifondisti erano sotto la protezione dei borboni, i contadini, dopo una breve parentesi “patriottica”, ritornarono sulla strada del brigantaggio.
Con l’Unità d’Italia le cose peggiorarono; i contadini cercarono di organizzarsi anche politicamente, i latifondisti, invece, utilizzarono, a protezione dei loro interessi, uomini fidati, gli spanzati divenuti poi ‘ndranghetisti.
Alla fine del secolo le vicende criminali calabresi si intrecciarono con quelle di Giuseppe Musolino, il “re dell’Aspromonte”, il brigante-vendicatore.
I contadini sfruttati e gli spanzati divennero facili prede dei tanti mafiosi siciliani spediti in confino sull’Aspromonte: nasce l’Onorata Società.
Si può affermare, al di là di quanto indicato e tramandato dalla mitologia mafiosa, che la presenza della ‘ndrangheta è segnalata in Calabria già al compimento dell’Unità d’Italia. Incomincia così, un’ascesa lenta, continua e inarrestabile della ‘ndrangheta lungo tutto l’Ottocento.
Nei primi anni dalla nascita del nuovo Stato italiano, la ‘ndrangheta è presente nella provincia di Reggio Calabria, Nicastro (che fa parte dell’attuale Lamezia Terme), Monteleone (attuale Vibo Valentia) e, sul finire del secolo, anche a Cosenza e Catanzaro.
All’inizio, l’organizzazione veniva indicata con altri nomi: mafia, maffia o camorra, picciotteria, famiglia di Montalbano e Onorata società.
Quest’ultimo termine appare poco diffuso, anche se lo si ritrova citato in documenti riguardanti le regole della ‘ndrangheta, ma sembra contrassegnare solo quella parte dell’organizzazione presente sul territorio della Piana di Gioia Tauro (RC).
Nella provincia reggina, si registrano altresì i nomi suggestivi di “fibbia” e di “affibiato”, utilizzati, rispettivamente per indicare il gruppo e l’associato, correlati, tuttavia, più ad una realtà locale che non riferiti all’associazione nel suo complesso.
Alla fine del primo conflitto mondiale, nell’Onorata Società si verificò una rottura fra quanti, idealisti, proseguirono la lotta nei partiti comunisti e socialisti e quanti continuarono nelle attività illecite finalizzandole al proprio arricchimento: verosimilmente, in questo momento nasce la ‘ndrangheta come organizzazione criminale moderna.
La ‘ndrangheta, alle sue origini, si presentava agli occhi della gente come una società di mutuo soccorso, primitiva e prepolitica, formata da pastori, contadini, piccoli artigiani, uomini di umili condizioni in genere, i quali in contesti chiusi ed arretrati come i villaggi calabresi di montagna, si organizzarono in setta segreta ricorrendo alla violenza e alla prevaricazione per difendersi dal potere feudale, statale o poliziesco “per ottenere quella ponderazione, quel rispetto e quella dignità altrimenti irraggiungibili da parte di nullatenenti e miserabili” (G. Turone, Il Delitto di associazione mafiosa, Milano, Giuffrè, 1995, cap. II, p. 76 e ss.).
Inoltre, bisogna evidenziare il fatto che la ‘ndrangheta è nata all’interno di una regione lontana dai centri politici e decisionali del Paese, il suo tessuto economico era molto precario, scarsissime erano le strutture esistenti nel territorio (dovuta sia a condizioni naturali, come la povertà del sottosuolo italiano, sia a deficienza di capitali), in quanto i governi precedenti al compimento dell’Unità d’Italia e quelli post unitari non avevano adottato una politica di sviluppo della regione. Quindi, le condizioni di vita precarie, hanno favorito la nascita della ‘ndrangheta, in quanto quest’ultima si presentava agli occhi dei ceti popolari rurali, come una organizzazione di mutuo soccorso, ovvero come una struttura a difesa dei delle classi più deboli, riuscendo a sostituirsi, alle enormi carenze dello Stato e capace di amministrare la giustizia, in quanto insofferente ai soprusi e alle ingiustizie.
In un contesto sociale caratterizzato da condizioni economiche disagiate, la violenza e l’intimidazione – che rappresentano l’essenza fondamentale dell’organizzazione – poste in essere dalla ‘ndrangheta, costituivano le condizioni che permetteranno poco a poco il suon arricchimento.
Questo arricchimento fu lento per tutto l’Ottocento e per i primi anni del Novecento, ma dopo subì un’accelerazione, quando a partire dai primi decenni del nuovo secolo, affluiranno in Calabria ingentissimi capitali di denaro pubblico, necessari per la realizzazione di importanti opere pubbliche, che avrebbero dovuto migliorare le condizioni economico – sociali della regione.
Il regime fascista affronterà la mafia calabrese come un fenomeno delinquenziale concentrato nelle zone rurali, e per un certo periodo metterà in atto un forte e costante contrasto al suo dilagare.
Gambino sostiene che “alla mafia calabrese il fascismo non tagliò la testa; sola la depotenziò, ma a livello di grande proprietà terriera”.
Il regime totalitario, infatti, non può tollerare alcun concorrente sul piano della gestione della violenza, per poter tener fede alla fama di Stato forte. Ha, inoltre, l’esigenza di affermare il partito fascista come unico intermediario tra la popolazione e lo Stato. Tale esigenza è incompatibile con la tradizionale attività di mediazione dei mafiosi.
Il periodo fascista rappresentò, sotto alcuni aspetti, una specie di prolungamento della ‘ndrangheta ottocentesca. Durante questo periodo, dunque, la ‘ndrangheta non scomparve, anzi, attraversò il regime senza subire sconvolgimenti in merito alla sua struttura, continuando a prosperare ed agire seguendo la sua politica criminale, riuscendo a presentarsi, dopo il crollo del fascismo, come una struttura criminale ancora pienamente efficace operante in particolar modo nel territorio calabrese.
Proseguendo lungo un’impostazione già presente in età liberale, il fascismo affrontò la ‘ndrangheta considerandola come un fenomeno di delinquenza particolarmente concentrata nelle zone rurali. In certi momenti colpì alla cieca e usò l’arma della repressione indiscriminata.
La repressione eseguita, comunque, non riuscì a stroncare il fenomeno, anche se l’organizzazione non ne uscì indenne, anzi, alcune ‘ndrine furono colpite e numerosi ‘ndranghetisti condannati, ma tutto questo non bastò per debellare in maniera definitiva la criminalità organizzata calabrese.
In Calabria, in diretto rapporto con quanto accadde a livello nazionale con l’invio del Prefetto Mori in Sicilia, per una certa fase il regime contrastò duramente la ‘ndrangheta. Questo è confermato dalle numerose operazioni di polizia che portarono all’arresto di esponenti della malavita calabrese, a seguito di una dura stretta repressiva sul finire degli anni Venti.
Tra il 1943-45, in provincia di Reggio Calabria si registra con la liberazione da parte degli alleati, la nomina di sindaci mafiosi da parte del governo militare alleato. In questo momento l’Onorata società viene a consolidare la sua legittimazione e la sua influenza pubblica, diventando così un soggetto capace di intervenire in determinati momenti del conflitto sociale.
Negli anni Cinquanta si registra un rallentamento della repressione da parte dello Stato nei confronti dell’organizzazione mafiosa calabrese.
La ‘ndrangheta, negli anni Sessanta continua la sua ascesa; le sue ‘ndrine conquistano nuovi territori e nuovi settori come quello dell’edilizia. L’occasione è costituita dai lavori per la costruzione dell’autostrada tra Salerno e Reggio Calabria, dando la possibilità alla ‘ndrangheta di sviluppare le proprie dimensioni imprenditoriali.
Tipica è da considerare l’evoluzione della ‘ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria.
Di fondamentale importanza, per i suoi contenuti, il rapporto Santillo – Aiello, questore e vicequestore di Reggio Calabria, nel quale si evidenzia la grave situazione derivante dalla minaccia mafiosa in tutta la regione. Questi indicarono i principali elementi che concorrono ad alimentare il fenomeno mafioso:
- l’analfabetismo;
- l’accentramento della proprietà terriera nelle mani di poche famiglie privilegiate;
- la disponibilità di forti masse di braccianti disoccupati;
- un malinteso senso dell’onore, frutto della disinformazione e dell’isolamento;
- la predisposizione alla prepotenza e alla spavalderia dei ceti emarginati;
- il culto popolare della forza, delle armi come alterativa alla mortificazione civile, alla condizione di impotenza;
- il bisogno di organizzarsi in gruppi, in clan, in alleanze familiari, come bisogno di protezione, di autosufficienza.
Entrambi, inoltre, sostengono che la mafia in Calabria è governata da “regole implacabili” e «ricava autorità dall’esercizio di mediazione fra “cardi” e “fiori”, come in gergo si definiscono le “vittime dei soprusi” e gli “autori di soprusi», ancora “secondo il rapporto della Questura di Reggio Calabria, le attività specifiche dell’organizzazione mafiosa alla fine degli anni sessanta sono individuabili in cinque settori”:
- imposizione di protezione;
- assunzione di manodopera;
- compravendita di prodotti commerciali a prezzo obbligato;
- autotrasporti;
- speculazione su immobili e terreni edificabili.
Comunque, alla data del rapporto Santillo – Aiello, gli interessi della mafia calabrese avevano invaso anche altre attività illegali, quali ad esempio sigarette, droga e armi.
Ad una prima fase, nella quale la ‘ndrangheta brutalmente assoggettò il territorio, lottizzando e imponendo generalizzati taglieggiamenti, guardianie abusive ai proprietari terrieri, assunzioni e prestanomi di vario genere ed addirittura l’espropriazione dei terreni agricoli, tutto questo mediante modalità tipiche della malavita calabrese fatte di subdole premesse, intimidazioni e violenze, seguì negli anni Settanta una nuova fase.
Le guerre di ‘ndrangheta
I grossi capitali stanziati per la realizzazione di imponenti e indispensabili opere pubbliche nella provincia, non potevano passare inosservati alla ‘ndrangheta, e, non potevano non scatenare la corsa l’accaparramento di questi investimenti – migliaia di miliardi – da parte delle cosche, che fino a quel momento si erano accontentate di taglieggiare le piccole imprese edili operati nel territorio. C’è un indubbio salto di qualità dell’organizzazione criminale, per quanto concerne il reperimento di capitali destinati alla realizzazione di grandi opere pubbliche.
Da questi contrasti scaturì la prima guerra di ‘ndrangheta (1974 – 1976) che provocherà la morte di centinaia di affiliati.
La guerra tra cosche si concluse nel 1976, con un radicale cambiamento degli equilibri mafiosi prima esistenti, poiché ne uscirono sconfitte le cosche guidate dai vecchi boss della provincia, come Antonio Macrì, Giuseppe Zappia e Domenico Tripodi, e si affermarono personaggi come i fratelli Giorgio e Paolo De Stefano.
Comunque, la faida sanguinaria, delle cosche calabresi del 1974-76, non è il solo conflitto tra le varie ‘ndrine. Un secondo conflitto (II^ guerra di ‘ndrangheta), ancora più violento per il modo in cui si manifesta, si verificò nella seconda metà degli anni Ottanta, e precisamente a partire dal 1985 protraendosi fino al 1991 (questa guerra di mafia comporterà la morta di circa 700 affiliati), nel quale la disputa era quella del controllo del territorio della città, che vedeva da un lato schierate le cosche dei De Stefano, dei Libri, dei Tegano, mentre dall’ altra il gruppo dei Imerti-Condello-Serraino e Rosmini. I traffici illeciti di sostanze stupefacenti e di armi avevano raggiunto già allora un importantissimo volume di affari illeciti, a cui nessuno voleva rinunciare.
Il conflitto venne esteso anche fuori dalla città con la contrapposizione di due schieramenti non del tutto coincidenti con quelli sopra indicati: il primo composto dalle famiglie di Platì, San Luca e Africo, dai Cataldo di Locri e dai Mazzaferro di Gioiosa Marina, dai Pesce di Rosarno e dai Mancuso di Limbadi; mentre il secondo era composto dai Cosimo di Sidereo, i D’Agostino di Sant’Ilario, gli Urini di Gioiosa Ionica e le cosche dei Mammoliti e dei Piromalli nella piana di Gioia Tauro.
Nel 1991 le ostilità cessano.
La struttura della ‘ndrangheta: la ‘ndrina
[…] La ‘ndrangheta è rappresentata dall’albero della scienza, che è una grandissima quercia, alla base della quale è collocato il capobastone (o mammasantissima), ossia quello che comanda. Il fusto (il tronco) rappresenta gli sgarristi, che sono la colonna portante della ‘ndrangheta. I rifusti (grossi rami) sono i camorristi che rappresentano gli affiliati con dote inferiore alla precedente. I ramoscelli (i rami propriamente detti) sono i picciotti, cioè i soldati. Le foglie (letteralmente così) sono i contrasti onorati, cioè i non appartenenti alla ‘ndrangheta. Infine, le foglie che cadono sono gli infami che, a causa della loro infamità, sono destinati a morire […].
Francesco Fonte, collaboratore di giustizia
La ‘ndrina costituisce l’unità fondamentale di aggregazione della ‘ndrangheta e ne costituisce la sua forza attuale di fronte a tutte le altre organizzazioni mafiose. La struttura di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone che ne costituisce il suo punto di forza; essa è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura criminale interna della ‘ndrina e costituisce le ragioni del successo della consorteria mafiosa calabrese.
[…] La ’ndrangheta è invisibile come l’altra faccia della luna”, così il Procuratore dello Stato della Forida a Tampa, Julie Tingwall, descrive negli anni ’80 le cosche calabresi operanti in America […].
Questo particolare è un elemento tipico e caratteristico delle cosche calabresi, tale da costituire l’essenza stessa dell’organizzazione. Per designare una ‘ndrina è consuetudine utilizzare il cognome della famiglia del capobastone e quello delle principali famiglie alleate. A questo segue il nome del paese o del quartiere della città in cui opera. Invece, per la mafia siciliana generalmente è il paese a designare la cosca mentre nella camorra sembra prevalere una designazione che richiama quella della ‘ndrangheta (Ciconte, 1992).
Come riferiscono i collaboratori di giustizia, più cosche legate fra loro, danno vita ad un locale dove è necessaria la presenza di almeno 49 affiliati.
Ogni singolo locale è diretto da tre ‘ndranghetisti (copiata), quest’ultima costituita da una terna di nomi che allorquando un affiliato si presenta in un “locale” diverso da quella di appartenenza (una sorta di codice per il riconoscimento) o quando viene gli richiesto da un affiliato di grado superiore deve ripetere. I nominativi che formano la cd. copiata vengono indicati al momento della investitura o del rito di passaggio da una dote (grado) all’altra. In particolare, il capo locale (capobastone), che ha potere su tutti gli affiliati, mantiene, inoltre, i collegamenti con i capi delle altre cosche. Poi c’è il contabile che gestisce la cd. bacinella o bacinetta o valigetta, deve cioè tenere il conto delle entrate illecite che provengono da tutti gli affiliati, distribuire le quote a tutti gli affiliati anche quando sono in carcere, sorreggere le loro famiglie nei periodi di detenuti e provvedere alle spese legali. Quando avviene che il contabile sia latitante o detenuto si congela per un po’ la dote o si nomina un reggente. Se tale impedimento si protrae a lungo va nominato un altro contabile perché la sua presenza è necessaria sul posto. Il crimine è invece la persona cui compete la direzione del gruppo di fuoco degli affiliati adibiti, di volta in volta, ad atti intimidatori e ad ogni genere di violenze. Si occupa anche dell’esecuzione degli omicidi, custodisce le armi, e quando nelle riunioni il capo locale ordina l’uccisione o di un affiliato o di uno che ha fatto una infamità è il crimine che se ne occupa.
Il locale è formato secondo lo schema della cd. doppia compartimentazione: la Società Minore e la Società Maggiore, la maggiore viene formata da sette affiliati con il grado di santa, per questo in gergo si parla anche della Santa per intendere la società maggiore (da non confondere con il grado di santa); la Società Maggiore non dà conto delle proprie decisioni alla minore, viceversa la società minore deve dare conto alla maggiore. Non in tutti i locali si riesce a costituire la Società Maggiore o Santa, quando un locale è formato anche dalla Società Maggiore spesso il locale viene definito con il termine Società, proprio per indicare la differenza con il locale formata solo dalla minore.
[…] Fonti Francesco e Lauro Ubaldo, le cui lunghe e risalenti militanze criminali iniziano negli anni Sessanta, descrivono la struttura della ‘ndrangheta spiegando che essa è un complesso di locali, definiti anche società. Per locale si intende quel territorio dove ci sono circa 50 affiliati, rimpiazzati prima della richiesta di autorizzazione di apertura del locale in quel territorio. L’affiliazione può avvenire in carcere o in altri posti, deve però trattarsi di residenti in quel determinato paese o rione, che è il territorio del locale. Quando si raggiunge questo numero di affiliati la persona più in dote chiede a San Luca il permesso di apertura del locale e, dunque il battezzo di quel luogo che è posto sotto la giurisdizione degli affiliati […].
(sentenze della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria processo “Primavera”)
L’importante riferimento a San Luca deve spiegarsi con il fatto che la ‘ndrangheta ha il suo luogo principale a San Luca, comune nel quale ricade il famoso santuario-monastero della Madonna di Polsi, luogo quest’ultimo dove annualmente, all’inizio di settembre, si tiene una riunione in coincidenza con la festa della Madonna.
Generalmente San Luca manda un suo componente per il battezzo del neo costituito locale, ma ciò può anche non avvenire. Quello che non può mancare è l’assenso di San Luca.
Rilevano i collaboratori di giustizia che un locale è “aperto” quando il “principale” ha dato il suo assenso; si definisce “chiuso” quando questo assenso non è stato dato; è “attivo” quando si tengono riunioni di “’ndrangheta” almeno una volta al mese, è “passivo” quando anche se “aperto”, non tiene regolari riunioni. La data della riunione mensile generalmente è fissata nel giorno 29 di ogni mese al “vespero” (per tradizione le riunioni di ‘ndrangheta” avvengono sempre al calar del sole).
Quando si raggiunge il numero di cinquanta-sessanta affiliati che dispongono della stessa copiata (capo bastone, contabile, capo crimine), è facoltà del capo famiglia dar vita alla ‘ndrina distaccata”, che, deve essere autorizzata dal locale principale, la cosiddetta “mamma” di San Luca, cui ogni ‘ndrina deve versare una quota annuale, anche simbolica. Per i collaboratori di giustizia, questa deve essere intesa come una estensione del concetto di cosca, la quale cresce di importanza e si ramifica nel territorio. All’inizio le ‘ndrine distaccate potevano essere al massimo sette, poi, in considerazione dell’accresciuta potenza criminale della ‘ndrangheta questo limite non esiste più.
Il locale ha una rigida competenza territoriale limitata al luogo in cui insiste (città, comune, frazione), ma non è escluso che in grandi comuni o nelle città, come Reggio Calabria, possano coesistere più locali, con competenza rionale. Va chiarito che il locale non ha competenze operative, nel senso che non decide, né organizza, azioni criminali (sequestri di persona, traffico di droga, omicidi, estorsioni ecc.) occupandosi esso prevalentemente di affiliazioni, conferimenti di gradi o “doti”, espulsioni, sanzioni in caso di indegnità o infamità, insomma di giustizia domestica
La sua funzione principale è dunque quella di tramandare le tradizioni, i rituali, i codici, le regole, la disciplina, insomma l’identità “culturale” – ma meglio sarebbe dire “criminale” – degli associati. Ogni cosca è autonoma rispetto alle altre, ed è padrona assoluta del territorio in cui opera. Può essere minacciata – e così è sempre stato – da un’altra ‘ndrina esistente nello stesso territorio, ma mai da una ‘ndrine di un altro paese.
Da questa peculiarità hanno origine le faide, numerose e sanguinarie che hanno segnato le vicende dei decenni passati fino a quella cruenta di San Luca, divenuta famosa nel mondo per la strage di Duisburg (15 agosto 2007).
Giova far presente, inoltre, che le faide e, per altri versi le guerre di ‘ndrangheta, sono state l’espressione più selvaggia e ancestrale di uno scontro di potere originatosi su un territorio molto ben delimitato, quello del comune dove la faida o la guerra hanno il loro episodio scatenante. Non si sono mai spostate da quel territorio. Ci sono stati casi di singoli omicidi commessi al di fuori di esso, ma non si sono mai esportate né le faide né le guerre.
La costituzione a base familiare ha permesso alla ‘ndrangheta di passare quasi indenne, tra gli anni ’80 e ’90, la tempesta dei collaboratori di giustizia che travolse cosa nostra, la camorra, la sacra corona unita e le altre organizzazioni mafiose pugliesi; i pentiti furono pochi, e pochissimi quelli con posizioni apicali nelle strutture criminali. Il ‘ndranghetista che decida di collaborare è infatti tenuto in primo luogo ad accusare i propri familiari, il padre, il fratello, il figlio, trovandosi a dover infrangere un tabù ancora più potente di quello costituito dall’obbligo di fedeltà mafiosa sancito nelle cerimonie di affiliazione e innalzamento:
[…] Per me, accusare mio fratello Enzo, anche se morto, fu come distruggere la sua immagine e il suo ricordo agli occhi di mia madre la quale sapendo che i propri figli non erano certo dei cherubini, non poteva minimamente immaginare che fossero spietati assassini. E ciò – sia consentito anche ad una persona come me che nella propria vita ha calpestato praticamente tutti i valori umani e sociali – non è certo una cosa che si può fare e accettare a cuor leggero […].
(Antozio Zagari, collaboratore di giustizia).
Si tratta di uno straordinario fattore di protezione, di un anticorpo interno e strutturale del modello ‘ndranghetistico, di un potente fattore di vitalità.
L’importanza della famiglia nella ‘ndrangheta
La struttura organizzativo dell’organizzazione denominata ‘ndrangheta, è differente da quella di Cosa nostra e della camorra. La stessa si basa sulla cosca, o ‘ndrina, che è radicata in un determinato territorio, o locale, come viene definito, cioè un paese, in un villaggio o in un quartiere cittadino. Il fulcro centrale della ‘ndrina è formato dalla famiglia di sangue del capobastone. Questo particolare è un elemento tipico e caratteristico delle cosche calabresi, tale da costituire l’essenza stessa dell’organizzazione. Per designare una ‘ndrina è consuetudine utilizzare il cognome della famiglia del capobastone e quello delle principali famiglie alleate. A questo segue il nome del paese o del quartiere della città in cui opera.
La forza della ‘ndrangheta sta proprio sulla struttura portante dell’organizzazione: la ‘ndrina.
Infatti, essendo l’organizzazione di base essenzialmente familiare, costituisce un difficile ostacolo dal punto di vista psicologico e morale da superare, per chi intende collaborare con la giustizia, ecco spiegato il basso numero di pentiti nell’organizzazione.
Questa caratteristica strutturale, incentrata, sulla famiglia, genera delle conseguenze anche per quanto riguarda le forme di reclutamento.
Nella mafia siciliana le norme da rispettare per il reclutamento erano – e sono – molto rigide, i pentiti hanno raccontato, come i vecchi mafiosi seguissero con particolare attenzione le “imprese” dei giovani al fine di individuare, scegliere i potenziali futuri mafiosi da introdurre nell’organizzazione criminale.
Quel che conta che siano particolarmente “acerbi”, tanto da poter essere facilmente plasmati attraverso l’ideologia mafiosa, inoltre, che siano seri, ovvero siano in grado di mantenere un segreto, e che abbiano una certa disposizione, anche latente, per l’uso della violenza. È in questa periodo di frequentazione, reciproca che si decide chi ha i numeri per diventare un uomo ‘onore e chi no. Non interessa che i futuri “uomini d’onore” abbiano studiato, anzì è meglio che non lo abbiano fatto.
Il tempo per valutare le qualità di un individuo può essere anche molto lungo, in quanto si vuole essere sicuri che la persona da ammettere nell’organizzazione sia veramente affidabile sotto ogni punto di vista.
Quindi, prima che il soggetto possa essere ritenuto idoneo per essere affiliato alla ‘ndrina, deve superate diverse fasi, tra le quali quella di “osservazione” e quella successiva della messa alla “prova”, quest’ultimo passaggio fondamentale nel percorso di avvicinamento all’ingresso formale nell’organizzazione.
L’affiliazione a vita e la regola dell’omertà sono i due pilastri su cui si basa l’intera architettura mafiosa.
La famiglia naturale del capobastone costituisce la struttura fondamentale della cosca, e rappresenta un elemento di attrazione e di aggregazione con le altre famiglie mafiose e non mafiose.
Il matrimonio deve essere inquadrato nell’ottica mafiosa calabrese come un elemento di influenza e di potenza della cosca stessa. È una politica matrimoniale, anzi è una strategia matrimoniale, applicata molto di frequente.
L’importanza dei riti di iniziazioni nella ‘ndrangheta
Oggi la potenza criminale delle mafie è data dalla struttura organizzativa e dalle regole interne dell’organizzazione e, importante, per l’arruolamento dei nuovi adepti sono i riti di iniziazione.
Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione. È simile al battesimo e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita, in quanto il rito ricorrendo ad una simbologia più o meno complessa, deve essere inteso come una sorta di “morte dell’individuo” alla precedente vita, un processo destinato a realizzare psicologicamente il passaggio da uno stato, reputato “inferiore”, dell’essere, a “uno stato “superiore”.
Con una serie di atti simbolici, di prove, morali e fisiche, si dà all’individuo la sensazione che egli “muore” per “rinascere” a nuova vita.
Il rito assume, in genere, la sua maggiore visibilità nella cerimonia dell’affiliazione, atto primario e solenne durante il quale neofita consacra sé stesso al gruppo.
Il giuramento vincola gli affiliati all’obbligo di mantenere il segreto più completo sull’esistenza della setta e su tutte le imprese criminose compiute dai consociati: il giuramento rappresenta l’irrevocabilità dell’appartenenza al sodalizio, l’ingresso a un nuovo mondo dal quale solo la morte può deciderne la fuoriuscita.
Alla luce dei risultati della ricerca storica e sociologica sul fenomeno mafioso condotta a partire dagli ultimi decenni del Novecento, emerge con chiarezza come l’esperienza settaria abbia rappresentato, per molte organizzazioni criminali, non solo un riferimento culturale – evidente nell’adozione di un patrimonio simbolico e rituale sorprendentemente simile – ma anche un modello organizzativo particolarmente efficace, che ha mantenuto sostanzialmente inalterate le proprie caratteristiche principali per oltre un secolo, garantendo a questi sodalizi ampia impunità.
Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati. Avvolta nella sacralità è la cerimonia dell’iniziazione nella quale il neofita entra a far parte dell’organizzazione, dove c’è una meticolosa attuazione delle tradizioni criminali. Le formule del battesimo non sono tutte le stesse ed in alcune ’ndrine (famiglie) è prevista la cerimonia dell’incisione del dito del giovane e del versamento del sangue. Un collaboratore di giustizia descrive il rituale di iniziazione praticatogli nel carcere di Locri:
[…] Il rito avvenne nel carcere di Locri, nella cella di [omissis] al pomeriggio […]. Era un sabato come vuole il rito. Durante le fasi del battesimo (questo può essere chiamato anche con il termine “rimpiazzo” o “rimpiazzare” oppure “fare qualcuno malandrino”) ho giurato che non sarei mai andato contro le regole dell’onorata società a costo anche di andare contro la mia famiglia e che se qualcuno della mia famiglia si sarebbe comportato male, avrei dovuto riprenderlo io, poiché quello era il mio dovere che mi avevano imposto, visto che da quel momento in poi non ero più quello di prima e visto che occupavo un posto da “uomo”. Per questo motivo in futuro ero obbligato a dar conto alla Società. Nel corso del rito di iniziazione mi praticarono un taglio a forma di croce sulla parte superiore del pollice destro vicino all’unghia (ove ho ancora una piccola cicatrice del taglio verticale; l’asse trasversale non viene incisa così profondamente per evitare che la cicatrice sia troppo evidente a forma di croce). Inoltre preciso: dal mio dito destro dovevano cadere tre gocce di sangue dentro un piatto, quindi [omissis] prese un santino di S. Michele Arcangelo, lo bruciò parzialmente e mise la cenere sulla ferita in modo tale che essa guarisse. Quindi bruciò completamente il santino e mi disse: quando noi non ci saremo più, saremo come questa polvere. Quindi mi insegnò il gergo dello “sgarrista”: Osso è il “capo società”, Mastrosso è il “contabile”, Carcagnosso è il “mastro di giornata”, ossia quello che ha l’incarico di svolgere praticamente l’attività quotidiana per conto della “famiglia”. Gli elementi simbolici più importanti di questo rituale sono il fuoco e il sangue, simboli di purificazione e di rinascita, ma anche di distruzione e di morte. Anche la scelta di S. Michele Arcangelo è allegoricamente molto significativa, poichè rappresenta il simbolo della giustizia divina e della punizione del traditore […]
Il 15 agosto del 2007 un santino bruciacchiato al centro, raffigurante proprio San Michele Arcangelo, è stato ritrovato nelle tasche di una delle vittime della strage di Duisburg, quando furono uccise sei persone di San Luca, il paesino del santuario della Madonna di Polsi venerato dai ‘ndranghetisti; nella tasca dei pantaloni di uno degli uccisi fu trovato un santino bruciato, segno dell’avvenuta affiliazione con il previsto rituale.
Giovani che usavano i rituali erano presenti anche nella lontana Australia come accertò nel corso della sua missione del 1988 Nicola Calipari che, avvertendone tutta l’importanza, allegò alla sua relazione i codici rinvenuti in abitazioni di ‘ndranghetisti dai poliziotti australiani.
Alla base del rituale ’ndranghetista, vi è una leggenda legata a tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, vissuti probabilmente tra la fine del 1300 e la prima metà del 1400, appartenenti alla “Guarduña”, una consorteria fondata a Toledo nel 1412, i quali fuggirono dalla Spagna dopo aver “lavato nel sangue” l’onore di una loro sorella violata da un signore prepotente.
Racconta la leggenda di origine ignota, che i tre cavalieri si rifugiarono sull’isola di Favignana (TP) lavorando nelle grotte ed emersero alla luce dopo ventinove anni.
Durante questo periodo si dedicarono all’elaborazione delle regole sociali della nuova associazione che volevano costituire, elaborando i codici che sarebbero dovuti rimanere segreti e formare le regole fondamentali per le nuove generazioni.
Una volta che lasciarono le grotte, i tre cavalieri si adoperarono per far conoscere le regole da loro elaborate: Osso arrivato in Sicilia fondò la mafia, Mastrosso varcò lo stretto di Messina e si fermò in Calabria dando origine alla ’ndrangheta e Carcagnosso giunse fino alla capitale del Regno, a Napoli, per fondare la camorra.
Nei luoghi dove arrivarono trovarono orecchie pronte ad apprendere. Fecero un’ottima impressione tanto che, come fu detto da chi ha sentito la loro voce, Osso pareva rappresentare Gesù Cristo, dietro Mastrosso s’intravedeva San Michele Arcangelo che con uno spadino in mano, teso a bilancia, tagliava e ritagliava giusto e l’ingiusto, mentre Carcagnosso raffigurava San Pietro che montava un cavallo bianco davanti alla Porta della Società.
Leggenda immaginifica, non c’è dubbio. Favola dal facile apprendimento, fatta apposta perché fosse ricordata facilmente e potesse tenere compagnia nelle lunghe giornate di galera.
Era l’occasione più adatta per i picciotti i quali, raccontando dei cavalieri spagnoli e tessendone le lodi, cercavano nuove conquiste nelle diverse prigioni da loro frequentate nel corso di decenni
Oggi moltissime inchieste giudiziarie hanno permesso di accertare, in maniera lapalissiana, mediante l’utilizzo delle intercettazioni ambientali e di altri risconti info-investigativi, l’effettivo e ripetuto utilizzo dei riti di iniziazione da parte delle organizzazioni mafiose.
Le mafie capaci di accumulare con i loro business illegali ogni anno centinaia di miliardi di euro, di interloquire con la finanza mondiale tramite collaboratori di fiducia di provata competenza, quest’ultimi vicini all’organizzazione ma non inseriti in modo formale nella stessa (i cd. colletti bianchi) e quindi più difficili da individuare perché “puliti”, di privare milioni di persone della libertà e della dignità, di utilizzare un’inaudita e macabra violenza per esercitare la loro podestà d’imperio criminale sul territorio, di infiltrarsi in tutti i gangli della vita sociale, ricorrono a questa forma di associazionismo criminale arcaico, ma sempre attuale e imprescindibile, necessario per accogliere il neofita nell’organizzazione mafiosa.
Ed è proprio questo ricorso alla tradizione criminale e alle regole arcaiche che ha permesso alla ‘ndrangheta di essere oramai, la prima mafia in Italia, in Europa e nel mondo.
‘Ndrangheta S.p.A. Giuseppe Pignatone racconta la ‘ndrangheta
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